Giovanni Allevi: “Così combatto la mia ansia con la musica”

28 Settembre 2020

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Fame d’aria: una sensazione che chi soffre di disturbi di ansia e di panico conosce bene. In Italia, stando ai dati Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) ne soffre circa il 79% della popolazione. Tra questi, l’enfant terrible della musica classica contemporanea, Giovanni Allevi. Compositore, direttore d’orchestra e pianista, si è esibito nei teatri più prestigiosi del mondo, dalla Carnegie Hall all’Auditorium della Città Proibita di Pechino. Jeans, T-shirt, scarpe da ginnastica, tra i templi di Paestum, dove ha incontrato i giovani giurati del Giffoni Film Festival, dice: «Mai rinunciare alle proprie passioni. È l’unica via per la felicità».

Non ha mai fatto mistero di essere un ansioso. Come è riuscito a contenere l’ansia?
«L’ansia è insopportabile, e in alcuni periodi sfocia nel panico. Credo sia dovuta al fatto che io e il mondo contemporaneo proprio non ci troviamo. Non riesco a condividere questo senso di competizione, il culto dell’apparire, l’idea che bisogna mostrare il successo, l’idolatria per i numeri. Il risultato è un senso di inadeguatezza e la fame d’aria. Io credo che noi esseri umani siamo infiniti, creature della natura il cui unico dovere è dare tutti noi stessi».

La musica può rappresentare una terapia?
«Sono convinto del potere liberatorio della musica, della sua capacità di far rivivere parti nascoste di noi, di risvegliare emozioni. La fragilità è il nocciolo profondo dell’essere umano ed è un’assurdità far finta che non sia così».

Quando è nata la passione per la musica?
«Ero il secondogenito e passavo molto tempo da solo. A casa c’era un pianoforte chiuso a chiave, che poteva suonare solo mia sorella e mio padre, musicista severo nei modi, mi aveva vietato di toccarlo. Tutto è iniziato da un divieto e il pianoforte si è trasformato in una ossessione finché un giorno ho trovato la chiave e ho
iniziato a suonarlo di nascosto. Ancora oggi, davanti ai tasti, provo la stessa emozione di paura e desiderio».

Dopo La musica in testa e altri quattro libri aspettiamo Revoluzione. Di cosa parlerà?
«La mia editor storica, mi ha confidato che Revoluzione è un libro sfaccettato, che si offre a diversi livelli di lettura. Potrei dire che è un testo di filosofia, dove il mio pensiero si esprime attraverso un linguaggio analitico rigoroso, oppure si abbandona all’immaginazione. Ma è anche una favola dai risvolti umani, o un’indagine sull’aspetto borderline della personalità di chi vive l’insofferenza per lo status quo, proiettato nella
ricerca spasmodica del nuovo».

Che cosa rappresenta per lei la scrittura?
«Nel corso degli anni si sono ingigantite le aspettative sulla mia figura artistica. Scrivere mi permette di non impazzire e di dare ai miei pensieri uno sfogo, una collocazione. Invece, davanti alla musica non ho alcun controllo: è pura ispirazione».

Il Covid ha stravolto le nostre vite. Come ha trascorso il lockdown?
«Dopo lo sconforto del vedere annullati i concerti e le tournée, ho deciso di avventurarmi in qualcosa che pensavo fosse lontano dalle mie corde: un ciclo di dirette web
tra pianoforte e filosofia, vincendo la timidezza. Il risultato è stato inaspettato. Gli incontri sono stati seguitissimi, pur affrontando aspetti tecnici della musica, o sfociando nell’astrofisica».

Secondo lei, come potrà rialzarsi il mondo dell’arte?
«Il mondo dell’arte, della cultura, della letteratura torneranno ad
essere presi in considerazione dalla gente. Se il mondo culturale non si chiuderà, ma saprà interpretare le tensioni, vivrà una stagione straordinaria di rinascita».

A cosa sta lavorando?
«Ho ripreso i concerti in Italia. Già dai primi appuntamenti mi sento pervaso da un senso di riconoscenza nei confronti del pubblico. Ho temuto che tutto sarebbe finito per me e ora vedere tutta questa gente mi commuove. Non poterla abbracciare mi stringe il cuore. Forse perché non ho mai interrotto il contatto con il pubblico. Grazie alle dirette web si stanno moltiplicando gli appuntamenti ai festival letterari e ai concerti. Ho deciso di affrontarli dando tutto me stesso».

Un posto in cui si sente a casa?
«Nella metro di Milano c’è una panchina che ho eletto a mio studio. Spesso ci vado, per sentirmi vicino al mondo, per sognare che tutte quelle persone, che entrano ed escono trafelate dai vagoni, ascoltino le mie note. Lo faccio per salvare la mia musica dal rischio di isolarsi. Quando le forme ideali ed astratte incontrano la vita reale, il risultato è sublime»