«Sindrome di Medea», ma non solo. Quando le madri compiono gesti estremi

16 Giugno 2022

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Ci sono casi in cui sentimenti ed emozioni molto forti non vengono manifestati apertamente, ma crescono in maniera sotterranea fino a portare a vere e proprie psicosi. E quando una madre arriva a questo punto, tutto può accadere. Esistono però campanelli d’allarme che è importante imparare a riconoscere e a non sottovalutare. Ecco quali sono e perché il ruolo di parenti e amici può rivelarsi fondamentale

Gli ultimi fatti di cronaca ci portano a considerare storie e situazioni che nessuno vorrebbe mai dover immaginare né commentare. Il caso della piccola Elena, uccisa a coltellate dalla mamma e sepolta in un campo in provincia di Catania, genera profondo sgomento e induce a chiedersi come sia possibile non cogliere per tempo, o persino sottovalutare, certi segnali di estremo disagio che potrebbero lasciar presagire gesti di tale efferatezza.

La 23enne Martina Patti ha ucciso la figlia accoltellandola al collo e alla schiena. Il suo corpicino è stato riposto in sacchetti di plastica

«Sembra impossibile, ma non sono rarissimi i casi in cui le madri vengono accusate dell’omicidio dei propri figli», afferma la dottoressa Eleonora Iacobelli, psicoterapeuta, presidente Eurodap, Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico e direttore scientifico Bioequilibrium, commentando l’omicidio della piccola Elena.

«Le motivazioni vanno valutate caso per caso e ricercate nella storia personale della donna, ma volendo avventurarci in una generalizzazione, parte delle motivazioni di questo gesto sono da ricercare nella difficoltà della donna nell’accettare e gestire le emozioni e soprattutto le frustrazioni derivanti dal suo ruolo di mamma. Un figlio comporta inevitabilmente uno stravolgimento dell’equilibrio affettivo, lavorativo e sociale dei genitori, ma soprattutto della madre che subisce anche uno squilibrio a livello fisiologico ed ormonale», aggiunge Iacobelli. «La fatica, la sensazione di non essere adatte o all’altezza, lo sfinimento, il senso di inadeguatezza insieme a sbalzi d’umore ingiustificati, possono non essere manifestati apertamente, ma crescere in maniera sotterranea fino a portare a vere e proprie psicosi. Quando una madre arriva a questo punto, tutto può accadere. I sintomi sono rintracciabili in uno stato confusionale, il delirio e le allucinazioni».

Dottoressa, è possibile prevenire questo genere di gesti efferati, specialmente quando sono frutto di un evidente disagio psichico?
«In genere, quando una madre uccide il proprio figlio, c’è sempre qualcosa che precede il momento dell’omicidio ravvisabile nei suoi comportamenti, nelle relazioni con gli altri, nel suo passato. Pur sottolineando che ogni evento è un caso a sé, i moventi possono ragionevolmente essere raggruppati in: sindrome di Medea (la madre che è stata capace di sacrificare i suoi figli per vendicarsi del padre); gravidanze indesiderate; intolleranza alla frustrazione che inevitabilmente un figlio genera; tentativo estremo di proteggerlo da un mondo pericoloso. Qualunque sia il motivo è evidente la negazione di un disagio psichico che si è manifestato nel peggior modo possibile e che, invece, meriterebbe di essere compreso e soprattutto curato ben prima che tutto ciò accada», precisa la dottoressa Eleonora Iacobelli.

Ci sono segnali inequivocabili che una madre in crisi lancia e che bisognerebbe saper cogliere?
«Sicuramente tra i segnali di “pericolo” si possono ravvisare: umore depresso o sbalzi d’umore, poca tolleranza alla frustrazione, mancanza di empatia, senso d’inadeguatezza, rabbia. Nel caso di madri con figli piccoli occorre inoltre tener presente che già ogni donna, con la gravidanza, subisce un brusco squilibrio ormonale, che ha una forte incidenza sull’umore. Tuttavia se questa situazione persiste oltre un tempo limitato, vicino al parto, potrebbe trattarsi di una vera e propria depressione post-partum».

Qual è l’errore spesso commesso da chi sta accanto a una donna-mamma con queste difficoltà?
«Quello di sottovalutare i sintomi e i campanelli d’allarme. Il riconoscimento di un disagio psicologico è molto impegnativo sia per chi lo prova, sia per chi gli sta vicino. Ma la negazione di tale disagio non è mai funzionale. Va, inoltre tenuto presente che in caso di necessità è auspicabile rivolgersi ad un professionista».

Come si deve agire in tal caso, che cosa si può fare per evitare che una situazione critica degeneri drammaticamente?
«Il supporto familiare e sociale è di fondamentale importanza. Amici e parenti hanno un ruolo molto importante ed è loro compito non sottovalutare nessun campanello d’allarme. Qualora ci fosse necessità potrebbero anche avere la “funzione di ponte” tra la madre in difficoltà ed i professionisti che possono supportarla e curarla».

Tutto ciò rientra anche in un tema più generale di salute mentale di cui in Italia si è sempre parlato molto poco. Che cosa manca di importante nel nostro Paese?
«Ciò che manca in Italia più di ogni altra cosa è la conoscenza e la prevenzione. Il disagio psicologico è ancora visto, nella maggior parte dei casi, come un tabù. Questa visione retrograda e distorta va combattuta perché le difficoltà, se non affrontate, vengono percepite ancora più grandi di quanto non siano realmente. La figura del professionista deve “uscire dall’ombra” ed essere normalizzata, non mistificata. Rivolgersi ad uno psicologo/psicoterapeuta deve diventare una normalità, ovviamente dove ve ne sia necessità».